“L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.”
Così recita l’Art. 1 della Costituzione italiana. E riesco già a sentire i commenti sarcastici, quelli che oggigiorno sono sulla bocca di tutti: ma non mi importa l’ormai scontata mancanza di lavoro! Quello che a me interessa è il peso psicologico della parola “lavoro” e le conseguenze che ha avuto sulla cultura, l’educazione e la società italiane questo celeberrimo articolo (praticamente un mantra per il popolo). Ogni cosa a suo tempo. Vediamo intanto che gli articoli 35 e 36 sostengono adeguatamente il concetto di lavoro:
“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori.”
“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.”
So che rileggere questi articoli può fare ancora più rabbia visto il panorama in cui ci stiamo muovendo negli ultimi tempi, ma è importante sapere esattamente a cosa possiamo aspirare (anche se molti, troppi, hanno perso l’entusiasmo necessario). L’Art. 4 è il mio preferito:
“Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”
Quello che intendo svelare è fondamentale, e per quanto possa sembrare capzioso o superfluo è in realtà la chiave per la libertà individuale di ciascuno. Il punto centrale del mio ragionamento (e della mia proposta) è che c’è un profondo sbaglio linguistico nella decisione di usare la parola “lavoro”.
Posso già immaginare i soliti impauriti, poco avvezzi alla riflessione e all'analisi o fin troppo abituati a saltare frettolosamente alle conclusioni, che reagiscono prontamente: "ah tu ne fai una questione filosofica..."
Nient’affatto! Sono più concreto che mai, perché il linguaggio plasma e accompagna la nostra realtà e ce ne rendiamo perfettamente conto quotidianamente quando interagiamo con i bambini o i cuccioli, quando siamo innamorati o viviamo un momento di passione, quando siamo all’estero e non padroneggiamo la lingua oppure quando ci relazioniamo con stranieri nel nostro Paese.
Il nostro linguaggio rappresenta la base dei nostri ragionamenti e i cambiamenti che attuiamo (o le situazioni che scegliamo di mantenere) si fondano proprio sui nostri processi di pensiero (e fino a dove abbiamo il coraggio di condurli). Se a tutto questo aggiungiamo oltre mezzo secolo di abitudine, speranze e aspettative legate a questi articoli, si capisce che siamo stati fortemente influenzati dal fatto che l’Italia si preoccupa così tanto del lavoro. E cosa c’è di potente nella parola “lavoro”?
Deriva dal latino labor, cioè fatica.
Labor, a sua volta, deriva dalla radice labh che proviene dal sanscrito rabh di cui ha mutato la “r” in “l” (come ruc - splendere - ha dato luc, da cui luce).
In antico slavo rabu è lo schiavo.
In francese, lavoro si dice travail, in spagnolo trabajo e anche in siciliano abbiamo il travagghiu, sempre fatica insomma.
Il lavoro assume quindi connotati un po’ più precisi: è la fatica che noi facciamo in cambio di un compenso, consiste nel barattare il proprio tempo e la propria energia con il denaro.
Sinceramente, è qualcosa di allettante?
Elevante?
Entusiasmante?
Emozionante?
Onestamente, quale mente illuminata metterebbe al primo posto l’idea di fare fatica in cambio di denaro?
Quale bambino lo farebbe?
E soprattutto, quante persone di successo l’hanno mai fatto? Nessuna. E questo è il punto più importante.
mattia:lualdi